area archeologica di velia

Di tutti i Greci che si spinsero verso Occidente nei loro traffici mercantili, stanziandosi sulle coste con città e empori, quelli di Focea, città dell’Asia Minore, oggi Turchia, osarono sfidare i mari e raggiungere i lidi più lontani, utilizzando le leggere navi da guerra a cinquanta remi, pentekonteri, che consentivano di trasportare merci leggere ma preziose o di valore, come l’argento e l’allume.

Massalìa (Marsiglia), Emporion (Ampurias), Alalia (Aleria) e molte altre città sorsero, l’una dopo l’altra, dalla fine del VII secolo a.C. sulle coste nordoccidentali del Mediterraneo, proprio in prossimità delle regioni dove erano reperibili quelle preziose materie prime. Ben altre, invece, furono le ragioni che spinsero i Focei, intorno alla metà del VI secolo a.C., per l’ultima volta a sfidare i mari e a dirigersi verso Occidente. Focea, infatti, era stata posta in assedio dai Persiani, che erano ormai in procinto di metterla a ferro e fuoco. Così i Focei scelsero di tirare le leggere navi da guerra in mare, di caricarle delle loro donne, dei bambini, degli anziani e di quanto avevano più caro, come i simulacri divini, e di partire, questa volta, non con spirito di avventura e di intraprendente speranza ma colmi del dolore straniante che si prova nell’abbandonare la terra natia. È lo storico greco Erodoto (V secolo a.C.) a narrarci nel I libro delle Storie, con parole ricche di pathos, le peripezie del viaggio, che portò i Focei dapprima in Corsica, dove trovarono ospitalità presso i loro concittadini che lì, alcuni decenni prima, avevano fondato Alalia. Ma il loro soggiorno, durato cinque anni, durante i quali si dedicarono alla pirateria, si concluse, intorno al 540 a.C., con una battaglia navale contro gli Etruschi e i Fenici, alleatisi in difesa dei comuni interessi mercantili sul Tirreno. Risultati vincitori grazie all’agilità delle loro navi, ma avendo subito gravi perdite, i Focei ripresero la via del mare fino all’approdo sulle coste dell’attuale Cilento, terra abitata dagli Enotri, dove fondarono Elea. Fu un cittadino di Poseidonia (Paestum), incontrato nella colonia calcidese di Reghion (Reggio Calabria), a indicare ai migranti il luogo. Questa notizia, fornita sempre da Erodoto, potrebbe fare riferimento ad un controllo mercantile della costa da parte dei Poseidoniati e lasciare intendere che la fondazione di Elea avvenne con il loro consenso e all’interno della loro area d’influenza. Ma, se si riflette sulle ragioni dell’abbandono della madrepatria, si comprende come i Focei scegliessero un luogo che in modo pregnante ricordava la terra d’origine. La collina di Elea o di Velia, come i Romani chiamarono la città, infatti, oggi contraddistinta dalla torre del castello medievale e prospiciente un ampio arenile, si protendeva un tempo nel mare, fiancheggiata da due profonde insenature proprio nelle forme della madrepatria e che caratterizzano ancora oggi la moderna cittadina turca di Phokaia, che sorge sui resti della città greca più antica. Quindi tra le componenti che spinsero i Focei a insediarsi definitivamente sulle coste oggi cilentane, dopo aver peregrinato per il Mediterraneo, un ruolo importante fu giocato dalla nostalgia e dalla memoria. Essi si stanziarono lungo il crinale e sulle pendici della collina probabilmente alla maniera greca antica, katà kòmas, e cioè con piccoli nuclei sparsi di abitazioni, che vennero soppiantati da un impianto urbano vero e proprio nel corso del V secolo a.C., individuato per un ampio settore sul versante sudorientale della collina, nell’attuale località “Vignali”, ma non portato ancora in luce e dunque riconoscibile solo sulla planimetria della città.

Questa significativa trasformazione avvenne quando la città godeva del buon governo di Parmenide, uno dei più grandi pensatori del mondo greco, fondatore con il suo allievo Zenone della scuola filosofica eleatica, culla del pensiero filosofico occidentale, ma che seppe anche dare alla città le buone leggi che la resero capace di resistere all’attacco delle bellicose genti italiche, i Lucani, e dei Poseidoniati (Strabone, VI, 1, 1, 252). Fu questo il periodo di maggiore splendore della città, quando, proprio grazie a Parmenide vennero intrecciati rapporti non solo culturali ma anche politici con Atene ed Elea, nell’ambito della lega italiota, ebbe un ruolo importante nel gioco di equilibri tra le città magno greche e le comunità indigene e nella resistenza ai tentativi di conquista del potere da parte dei tiranni siracusani. Le trasformazioni urbane furono però provocate non solo dall’evolversi delle condizioni sociali, politiche ed economiche ma anche dagli eventi naturali che intervennero a modificare radicalmente interi comparti. La grande ricchezza di acque sorgive che caratterizza tuttora la collina di Velia favorì l’impianto di grandi complessi termali e terapeutici e contribuì, insieme alla salubrità dell’aria, alla fama della città come luogo di cura frequentato da personaggi illustri come il grande oratore romano Cicerone, che vi soggiornò ospite nella villa dell’amico Trebazio, come Bruto, che qui possedette una dimora, o come il generale Emilio Paolo. Allo stesso tempo, però, queste caratteristiche idrogeologiche resero il suolo instabile e franoso, provocando frequenti alluvioni, così che la parte bassa e pianeggiante della città subì un progressivo processo di insabbiamento, che portò prima alla formazione di dune e lagune e poi ad un compatto avanzamento della linea di costa che cancellò i bacini portuali e gli isolotti che fronteggiavano in origine la città. Ancora in età ellenistica, tra III e II secolo a.C., proprio a seguito dei grandi disastri naturali registrabili nelle stratigrafie evidenziate negli scavi archeologici, in alcuni spazi urbani furono realizzati interventi che enfatizzarono l’aspetto monumentale e scenografico della città, tanto simile a quello delle città greche mediorientali. La perdurante floridezza economica di Elea anche in questa fase può desumersi dalle fonti storiche ed epigrafiche, che testimoniano di una città al centro di attività mercantili e politiche nel Mediterraneo. A questo periodo risale il patto di alleanza con Roma, che Elea sostenne nel corso delle guerre puniche, fornendo navi, e con la quale mantenne un rapporto privilegiato, divenendo municipium (88 a.C.) e quindi conseguendo gli stessi diritti e doveri dei cittadini romani, ma conservando il privilegio di parlare in greco nelle cerimonie pubbliche e di coniare moneta propria. Testimonianza di questo rapporto privilegiato era l’invio presso il tempio di Cerere in Roma di sacerdotesse veline per la celebrazione del culto della dea alla maniera greca (Cicerone, pro Balbo, 24,55).

La città, che in questo periodo mutò in Velia il suo nome greco, legato secondo la tradizione alla sorgente di nome Yele presente sulla collina, poté contare su buone condizioni economiche ancora nella prima età imperiale, a giudicare dagli edifici pubblici monumentali che ancora sorsero nell’area urbana, in particolare quelli termali. Il progressivo insabbiamento e impaludamento dei quartieri di pianura che cancellò le strutture portuali, limitando considerevolmente le attività mercantili e l’attrattività ambientale dei luoghi, fu probabilmente la causa principale del declino della città che si ridusse gradualmente ad occupare la sola acropoli, dove, dopo gli assedi barbarici, sorse una sede vescovile tanto importante da accogliere nell’area della città antica le spoglie di San Matteo, trasferite, dopo il ritrovamento, nel 954 d.C. a Salerno. L’acropoli, grazie alla sua posizione strategica, a dominio della fascia costiera, fu poi nel pieno del Medioevo occupata da una fortezza, il Castellum Maris, documentato dalle fonti, che nel tempo si arricchì di diverse strutture difensive, prima fra tutte la torre circolare, il mastio, che ancora oggi si erge a segnacolo imponente e simbolico della storia illustre del luogo. Il Castello, pur perdendo gradualmente la sua funzione difensiva, rimase dimora aristocratica ancora nel corso dell’Ottocento; andò poi decadendo in semplice borgo rurale fino ai primi decenni del 1900, quando l’avvio degli scavi archeologici portò alla riscoperta della città antica, sulla quale era calato il velo dell’oblio, che per primo aveva squarciato il Lenormant. Nel suo viaggio À travers l’Apulie et la Lucanie. Notes de voyage (1883), infatti, egli segnala la presenza delle rovine, percependone tutta l’importanza.

Gli scavi archeologici, che da circa sessanta anni ininterrottamente vengono condotti nell’area, dapprima in maniera estensiva e più recentemente con saggi di verifica preventiva agli interventi di restauro, hanno non solo consentito di arricchire gli elementi di conoscenza di Elea/Velia, ma hanno anche fornito la opportunità di adeguare il sito alla fruizione pubblica. La preservazione dell’area archeologica opportunamente tutelata e valorizzata è stato elemento trainante per l’inserimento dell’intero Cilento nella lista del patrimonio mondiale dell’UNESCO.

Velia, teatro-min
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